
Sono almeno tre le opere di misericordia spirituale che ruotano attorno al tema dell’“altro” visto non tanto come bisognoso di un qualche servizio o di una qualche attenzione, ma dell’ “altro” come causa di un disagio, di una sofferenza, di un fastidio per noi.
Perdonare le offese, Ammonire i peccatori e Sopportare pazientemente le persone moleste: una triade di opere tanto faticose quanto necessarie per rendere la vita delle nostre famiglie e della nostra società un po’ meno infernale di quanto non sia.
In questa occasione mi voglio soffermare sulla prima delle tre: Perdonare le offese, che si presenta quasi come una missione impossibile se solo riusciamo ad essere onesti con noi stessi. Già, perché se ci dovessimo lasciare condurre dall’istinto e dalla spontaneità, la legge che ci guiderebbe – e che di fatto spesso ci guida – è quella detta del taglione, “occhio per occhio, dente per dente”. Diciamocelo francamente: dopo 2000 anni di cristianesimo anche quanti si onorano e si fregiano delle radici cristiane della nostra cultura si trovano a ragionare e ad agire in una prospettiva in cui ciò che domina è la vendetta e non il perdono. Lo stesso modo di pensare alla giustizia va nel senso di interpretarla in termini retributivi piuttosto che in senso riabilitativo. Quante volte, di fronte a crimini efferati ci scopriamo a pensare che certi delinquenti bisognerebbe chiuderli in carcere e gettare via la chiave!
Eppure, tutto il Vangelo di Gesù rema contro questa maniera di pensare. E quando l’evangelista Luca riprende il comando presente nell’opera di Matteo “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli” (Mt 5,48), lo spiega e lo traduce con un più chiaro ed impegnativo “siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36). L’ultima parola di Gesù in croce è stata una parola di perdono nei confronti di chi lo aveva massacrato: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Ed anche questo è grandioso e illuminante: Gesù stesso sa che con le nostre sole forze non ce la faremmo mai a perdonare in certe situazioni, per cui affida al Padre il compito arduo di un perdono impossibile a noi umani, ma che ci coinvolge in uno sguardo di misericordia anche nei confronti di chi non meriterebbe nulla. Essere misericordiosi non significa riuscire per forza a perdonare. Quando non se ne ha la forza sarebbe già molto chiedere aiuto a Dio. Quando noi non sappiamo più perdonare possiamo chiedere a Dio che lo faccia lui. E porrà nel nostro cuore il perdono che non vi trova posto.
Ma attenzione: non vorrei che quanto detto finora fosse visto solo come un discorso fatto per i credenti, per chi ha un Dio cui rivolgersi. Sono infatti convinto che questa visione misericordiosa possa e debba valere anche al di fuori di una prospettiva di fede e debba entrare ragionevolmente anche in ambiti difficili come quello della giustizia e del mondo carcerario. È infatti opinione di molti studiosi della materia che “l’esecuzione penale esterna al carcere è la migliore scelta possibile: abbatte la recidiva, dà provato esito di efficacia nel reinserimento sociale, incide meno sui costi della pubblica amministrazione e finisce per generare maggiore sicurezza sociale”. (A. Scola, Misericordia e giustizia. Discorso alla città in occasione della solennità di sant’Ambrogio 2015, p. 31)
Perdonare non sarà mai sinonimo di «girare pagina», non potrà mai significare far finta di niente o dimenticare che il male è male. Perdonare non sarà mai «dimenticare». Se si vuole perdonare davvero bisogna che la memoria sia molto forte e molto precisa dal momento che le ferite che il male produce nel nostro intimo, anche se guariscono, mantengono una cicatrice ben visibile e permanente. Ma se desideriamo che il mondo di domani sia migliore di quello di oggi sarà necessario convincerci che “perdonare è più importante che avere ragione” (card. Danneels).
Don Roberto Davanzo
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