Argomento poco estivo, questo è certo. Ma tormento di ogni stagione, per chi si trova a viverlo sulla propria pelle, nell’intimo del proprio quotidiano, nelle travagliate relazioni dentro le proprie reti familiari e non. Compagnia che non si scansa facilmente, quella del disagio psichico. Che costringe chi ne soffre in recinti di solitudine. Tanto più desolanti in estate.
Ma, come detto, non è un problema stagionale. E nemmeno una questione esclusivamente sanitaria. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ricorda che la salute mentale è uno stato di benessere nel quale la persona può realizzare il suo potenziale, affrontare le tensioni normali della vita, lavorare in modo produttivo e dare il suo contributo alla collettività. La promozione di queste condizioni di vita non può essere esclusivo appannaggio di cure mediche e farmacologiche. C’è una dimensione sociale, relazionale, di inclusione, che gioca un ruolo essenziale nel recupero della propria esistenza, da parte degli individui affetti da disturbo mentale.
A Milano, nelle scorse settimane, molte persone coinvolte in percorsi di integrazione sociale, intrecciati a quelli clinici, hanno ricevuto una lettera dal Comune, in cui, sostanzialmente, si annunciava l’interruzione o la riduzione delle esperienze di cui fino a oggi sono stati protagonisti. Motivo: insufficienza di fondi, nel bilancio comunale soggetto a tagli, da dedicare sia alle attività sociali sviluppate dai Cps (i Centri psicosociali territoriali) a favore di persone fragili con problematiche economiche, sia a progetti territoriali a titolarità dei dipartimenti di salute mentale gestiti spesso insieme al terzo settore, sia al sostegno sociale di chi vive in appartamenti protetti per realizzare un percorso di autonomia.
La cessazione dei fondi comunali, detto in sintesi, fa venir meno la “gamba sociale” del progetto di riconquista dell’autonomia, e con essa della dignità personale. E la cosa è grave (meglio, rischia di diventarlo, se non vi si porrà rimedio nell’assestamento di bilancio che il Comune è chiamato a fare prima della pausa d’agosto) non solo sul piano pratico, ma anche come indizio culturale.
Sebbene da anni si ripeta che «non c’è salute, senza salute mentale», aleggia ancora una certa fatica nel comprendere che la cura della salute mentale è premessa per ogni tipo di salute. E che un taglio in questo settore può avere ricadute importanti, a cascata, sul benessere di un’intera città, inclusa la Milano che pur si sforza di accogliere e curare. Se i cittadini in carico ai servizi sanitari sono senza casa, senza lavoro, senza percorsi di inclusione, il livello di stabilizzazione clinica raggiunto rischia di essere messo in discussione. Rischiano di rimanere cittadini a metà, con una dignità amputata.
A Milano, la questione è aggravata dal fatto che l’interruzione (speriamo, ripeto, temporanea) non riguarda solo percorsi riabilitativi connessi a bandi e progetti di cui era noto sin dall’inizio il termine di scadenza, ma anche prolungati e consolidati itinerari di conquista dell’autonomia. C’è chi ha fatto un percorso di anni, ha conquistato con fatica una relativa serenità, l’inserimento in un luogo di lavoro, un appartamento come porto sicuro, e rischia di veder svanire, insieme a traguardi esteriori, un equilibrio interiore tanto faticosamente maturato. La preoccupante storia milanese, peraltro, non è la sola che si potrebbe narrare, in un Paese e in un tempo che vedono esplodere – anche a causa della lunga fase di stress pandemico – i sintomi di un diffuso malessere psichico. Per contenere il quale bisogna architettare con pazienza ambienti e abitazioni, opportunità e legami sociali invece di illudersi che possano bastare montagne di farmaci.
Luciano Gualzetti
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