C’è voluto un evento tragico e dolorosissimo – il rogo di inizio luglio alla Casa per coniugi in zona Corvetto, a Milano – per tornare a far discutere la città delle condizioni di vita e, va da sé, delle condizioni di sicurezza che caratterizzano l’esistenza di tantissimi anziani nel deserto urbano della metropoli. Il discorso vale non solo per le residenze collettive, in cui vivono migliaia di anziani parzialmente o totalmente non autosufficienti, che hanno diritto a sapere di frequentare ambienti sani e manutenuti a norma di legge, ma anche e soprattutto per le innumerevoli nicchie individuali di fragilità che costellano i quartieri.
A Milano l’anagrafe (dati ottenibili dal Piano di sviluppo del welfare cittadino) censisce 333 mila famiglie unipersonali, di cui 131 mila costituite da over 65 e quasi 71 mila da over 80 soli. Preoccupazioni e mobilitazioni dovrebbero valere soprattutto a proposito di questi ultimi. Soggetti che, per una molteplicità di motivi (di reddito, di diffidenza verso estranei, di resistenza alla modifica di abitudini e routine inveterate), non sempre è facile agganciare e raggiungere con servizi domiciliari personalizzati. Ma che dovrebbero essere fatti oggetto di una moltiplicazione di sforzi, parallela alla moltiplicazione del loro numero (inarrestabilmente in crescita, date le tendenze demografiche dei nostri tempi), per evitare che la solitudine in cui versano si risolva in abbandono sociale.
Invece la tendenza a promuovere servizi mirati e sartoriali, ritagliati sul bisogno individuale, almeno a Milano appare in ritirata: attivare l’assistenza domiciliare integrata, le prestazioni dei custodi sociali, le consegne a casa è sempre più difficile. Le risorse educative ed economiche scarseggiano, i “grandi anziani” sempre più spesso rimangono non semplicemente soli, ma isolati nei loro appartamenti. E la differenza non è meramente lessicale: dalla solitudine, che può anche essere una condizione di vita scelta, o comunque nella quale ci si può ritagliare spazi di benessere, si scivola nella diradazione delle relazioni, fino alla loro assenza, e di conseguenza nell’incapacità anche solo di chiedere aiuto. L’isolamento sociale finisce per esasperare la fragilità, e l’insicurezza che le è congenita.
Che fare per ribaltare questo scenario? Le istituzioni, locali, regionali e nazionali (l’occasione del Pnrr in questo senso non va mancata) come detto devono investire in servizi domiciliari. Ma anche terzo settore e volontariato devono avere ben presente che la lotta all’isolamento sociale, che coincide in parte con la lotta alla povertà e al disagio, ma finisce per interessare anche gruppi non toccati dall’indigenza materiale, sarà decisiva per la tenuta delle nostre comunità, in una fase storica dominata dal prolungamento costante delle aspettative di vita.
Caritas e il suo sistema non mancano di attenzioni verso il vasto mondo delle solitudini urbane anziane. Servizi gestiti da cooperative sociali, centri diurni nei quartieri, antenne dritte da parte di Caritas parrocchiali e centri d’ascolto. E l’esperienza del Pranzo è servito, che per il sesto anno si è svolta al Refettorio Ambrosiano, dal 31 luglio al 1° settembre: un mese di pasti e pomeriggi in compagnia per 60 anziani, grazie alla disponibilità di tanti volontari. Proprio quando la città si svuota, proprio quando essere anziano a Milano rischia, per molti, di rivelarsi una prigione senza sbarre.
Quella del Refettorio d’agosto è un’esperienza tenace, dai numeri non esorbitanti. Ma indica una strada. E per i 60 che hanno mangiato e si sono incontrati in piazza Greco, è stata comunque una festa. Lunga un intero mese, nel mese altrimenti più desolato.
Luciano Gualzetti
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