Chiedere l’elemosina non può essere un reato
È giusto, anzi doveroso, punire chi riduce in stato di schiavitù persone indifese costringendole a medicare. Se aver previsto norme più severe, come ha fatto il Decreto Sicurezza, permetterà di portare alla luce queste gravi violazioni, assicurare alla giustizia chi le commette e liberare chi le subisce non possiamo che applaudire. Tuttavia, a nostro avviso, avere reintrodotto il reato di accattonaggio, seppur limitandolo alla condotte moleste, rappresenta un passo indietro. Significa illudersi, o far credere, che criminalizzando i poveri, la povertà possa scomparire.
Come già osservava negli anni ’90 l’allora Arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, l’elemosina racchiude in sé dei rischi perché può «incoraggiare la pigrizia di chi la riceve» e in chi la compie «far nascere l’idea di sentirsi a posto, senza andare alla radice dei problemi», tuttavia osservava sempre Martini che l’elemosina ha in sé «il valore dell’intervento immediato, che non pretende di risolvere tutto, ma fa quello che è possibile al momento».
L’elemosina resta un diritto delle persone povere e, al contempo, un dovere di solidarietà sancito dalla Costituzione là dove obbliga la Repubblica (quindi non solo lo Stato, gli enti locali, le associazioni, ma anche i cittadini) a rimuovere gli ostacoli che, di fatto, impediscono l’uguaglianza tra le persone (art. 3, comma 2 della Costituzione).
Proprio in virtù di questi valori la fattispecie dell’accattonaggio molesto va affrontata con umanità e intelligenza. Ci auguriamo che i Comuni, cui spetta di applicare la norma, sappiano farlo senza tradire questi principi. In questo senso bene ha fatto il Consiglio comunale di Milano ad escludere dal Daspo urbano chi chiede l’elemosina in strada.
Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana