Parrocchie in “uscita”: quale contributo da Caritas?
A noi operatori di Caritas la parrocchia, la sua vocazione, la sua organizzazione, la sua trasformazione, ... stanno a cuore. Caritas non sarebbe più se stessa se per caso, per magia, d’improvviso le parrocchie sparissero, se mancasse questo radicamento territoriale della Chiesa, che significa questo profondo e stretto legame con la gente, là dove la gente abita. Certo, la gente non “abita” soltanto: la sua vita è fatta di lavoro, svago, cure mediche, turismo, studio, acquisti. Ma è la casa, la “home” come dicono gli inglesi, il focolare domestico, a dare unità alla molteplicità dei momenti del vivere. Per questo non potremmo mai fare a meno della parrocchia.
Eppure, non ci sono dubbi rispetto alle fragilità della parrocchia di oggi, specie di quella cittadina. Papa Francesco lo scrive nella Evangelii gaudium: “dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perchè siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione” (n. 28). Malgrado siano nate per offrire il vangelo a tutti, non è infrequente la percezione che le parrocchie finiscano per essere, di fatto, riservate ad alcuni. Insomma, che cosa può significare il reiterato invito di papa Francesco per una Chiesa in uscita? In questi ultimi anni si è anche diffuso il vocabolario del ‘sagrato’ o della ‘soglia’ per parlare dello slancio oltre le mura parrocchiali. Ma resta comunque difficile inventare le parrocchie di domani. Il problema non è costituito da quelli che vengono ancora nelle nostre parrocchie, ma da tutti quelli che non ci vengono. Non facendo che rispondere ai bisogni religiosi di alcuni, le nostre parrocchie ignorano o trascurano di fatto la sete spirituale della maggioranza.
In tutto questo, che cosa centra una realtà come Caritas? E dunque: che contributo una Caritas può offrire nella delineazione di un nuovo volto da dare alle nostre parrocchie?
Possiamo iniziare col ricordare che una Caritas incontra persone che normalmente le nostre parrocchie non intercettano: ad esempio poveri e stranieri di altre religioni. Insomma, talvolta è solo grazie a Caritas che una parrocchia assume il volto di una realtà “cattolica”, universalmente aperta ad ogni persona che abita un certo territorio.
Certo, a queste persone non viene fatta una proposta di tipo liturgico-catechetico – che in molti casi non potrebbero accogliere trattandosi di appartenenti a culture e religioni diverse dalla nostra - ma non per questo vanno ignorati i loro bisogni religiosi. Su questo fronte come Caritas dobbiamo meglio attrezzarci: quanto ci preoccupiamo, nella nostra relazione di ascolto, di offrire anche un ‘pane’ diverso, un ‘pane’ in grado di sfamare quel bisogno di senso che alberga nel cuore di ogni uomo e che nessuna borsa della spesa o nessuna bolletta della luce riesce a soddisfare?
I sociologi ci spiegano che la società attuale si caratterizza per il primato delle relazioni, della comunicazione, a dispetto della dimensione istituzionale, e che questo vale anche in ambito religioso. Per questo mi piacerebbe che l’immagine che le nostre Caritas parrocchiali offrono agli altri cristiani possa essere caratterizzata da questa dimensione relazionale, prima che prestazionistica. Se la parrocchia “tradizionale” finisce per essere vista come una erogatrice di certificati e di sacramenti, la significativa presenza di una Caritas adulta potrebbe offrire questa immagine meno formale, ma forse più rispondente ai veri bisogni delle persone.
Lo capite bene: qui non si tratta di scegliere una o l’altra immagine di parrocchia, ma di sapere saggiamente integrare le due “offerte”. Insieme, di saper riconoscere che nella sua operatività una Caritas in parrocchia diventa strumento indispensabile per permetterle di uscire verso quelle periferie esistenziali che senza di lei rischierebbero di restare non abitate.
Don Roberto Davanzo