Family 2012 - Quale eredità per la Caritas?
Questo numero dell’inserto Farsi prossimo esce proprio nei giorni in cui a Milano si sta celebrando il VII Incontro mondiale delle famiglie. Un evento lungamente atteso, sia per i contenuti che sono stati messi in gioco, sia per la straordinaria presenza di Papa Benedetto XVI.
Nei prossimi mesi la Chiesa di Milano dovrà interrogarsi sull’eredità che l’evento le avrà lasciato. Per ora mi accontento di tentare una qualche riflessione rispetto ai compiti che idealmente il Family 2012 affida alla nostra Caritas diocesana, a partire dal cammino di preparazione e da come le nostre comunità parrocchiali hanno reagito a questo grande appuntamento.
Una prima considerazione la vorrei formulare in questo modo: abbiamo percepito con soddisfazione che le tematiche poste sotto i riflettori hanno, per così dire, valicato i confini della Chiesa. La “laicità” del titolo ha dato positivamente l’impressione che non si andava a parlare di questioni intraecclesiali, di argomenti che riguardavano solo i credenti. La straordinaria attenzione che i media hanno riservato all’evento, anche solo nella sua preparazione, ha in qualche modo fatto passare l’idea che la famiglia è questione che riguarda la società intera. Una volta tanto la Chiesa è stata capace di parlare un linguaggio “laico”.
Dunque veniamo alle prospettive: in che cosa Caritas Ambrosiana si deve sentire coinvolta dopo il Family 2012?
Tra le innumerevoli possibili linee di impegno, credo che sia doveroso scegliere quella di favorire, con il nostro impegno, una reale capacità di accoglienza da parte delle nostre comunità cristiane delle ormai numerosissime famiglie migranti cattoliche che risiedono nei nostri territori. A ben poco sarà servito ospitare quanti arrivavano da ogni parte del pianeta per l’Incontro mondiale delle famiglie se non dovessimo trarne la percezione di un ruolo da giocare e da cui dipende il futuro delle nostre città. “Tra vent’anni – scriveva recentemente don Bressan - un giovane italiano su tre sarà in realtà un ‘nuovo italiano’. Ovvero un italiano frutto di una cultura e di un’etnia che non è più quella attuale, ma che sarà il risultato dell’incontro e del confronto di più mondi sociali, di esperienze umane anche molto diverse”. A dire che non è più possibile rimandare una precisa assunzione di responsabilità.
Quella migratoria non è certamente l’unica questione che la pastorale deve affrontare, ma difficilmente si potrà parlare di futuro se non si porrà attenzione in modo serio e non occasionale alle condizioni di inserimento delle famiglie immigrate cattoliche all’interno delle nostre comunità cristiane. Lo sottolineo: non parlo di tutto il fenomeno migratorio: parlo di quello connotato in termini di adesione alla Chiesa cattolica, non per escludere chi non vi appartiene, ma per sottolineare la doverosità pastorale di questa accoglienza. Il futuro dei migranti cattolici non potrà essere certamente quello di partecipare in modo esclusivo alle pur preziose cappellanie etniche, bensì quello di percepire che le nostre parrocchie, le nostre comunità pastorali, sono la prima realtà in cui le famiglie immigrate cattoliche possono e devono sentirsi a casa propria.
Loro hanno bisogno di questa testimonianza da parte nostra, ma noi abbiamo bisogno di loro, per dimostrare a noi stessi e alla società che l’appartenenza al Signore Gesù genera una reale fraternità.
Se questo non dovesse accadere, se dovessimo mancare a questa responsabilità, due almeno le conseguenze pericolose che intravvedo. Anzitutto sul piano della evangelizzazione: non favorire con tutti i mezzi l’inserimento dei migranti cattolici nella vita delle nostre parrocchie di fatto espone al rischio del diffondersi di quelle sette di stampo protestante che già si stanno affacciando sui nostri territori, pronte ad intercettare e a disorientare il sentimento religioso di questi fratelli e di queste sorelle. Inoltre, sul piano della coesione sociale, privare le famiglie migranti di un clima di accoglienza e di sostegno finirebbe per lasciare i genitori in uno stato di solitudine rispetto ai molti conflitti che vivono con i loro figli che, non dimentichiamolo, non hanno scelto la migrazione ma ne subiscono le conseguenze. Conflitti che favoriscono la diffusione di forme aggregative dei giovani migranti non sempre rispettose della legalità.
Don Roberto Davanzo