Samuel e Sabir, dal campo profughi alla laurea a Milano

Samuel Mesfin, eritreo, e Sabir Juma, rifugiato sudanese. Entrambi incontrati in un campo profughi dell’Etiopia, dove la loro capacità di studio e il loro potenziale rischiavano di andare dispersi. Invece un volo li ha portati in Italia, nel 2020.

Sono approdati a Milano, nell’ambito del progetto dei “Corridoi universitari”. E settimana scorsa sono stati i primi studenti beneficiari del progetto a laurearsi nel capoluogo lombardo, conseguendo una laurea magistrale (Samuel in chimica farmaceutica, Sabir in relazioni internazionali) all’Università Statale.
 
La loro storia di studenti ha avuto un lieto e meritato fine. Ora si volta pagina e si apre il capitolo della ricerca di un lavoro: non sarà una passeggiata, dipenderà anche dalla loro intraprendenza e dalla loro adattabilità a un contesto sociale complesso. 
 
«Samuel e Sabir sono arrivati nell’anno del Covid, a settembre 2020, e di sicuro questo non li ha facilitati – osserva Alessia Di Pascale, docente in Statale e referente del progetto all’interno dell’ateneo milanese –. Il primo anno è stato molto difficile per loro: chiusi in casa senza contatti esterni (a eccezione degli educatori di progetto quando potevano andare), solo lezioni a distanza... Nonostante tutto ce l’hanno fatta, è un grande successo. Ed è la dimostrazione che i corridoi universitari sono un progetto meritevole di essere sostenuto e potenziato, perché offre prospettive a giovani che altrimenti non ne avrebbero avute».
 
I “corridoi universitari” sono un’iniziativa promossa da Caritas Italiana, con il supporto, nei vari territori, delle rispettive Caritas diocesane e l’adesione di diverse università. A Milano collaborano alla sua riuscita anche la cooperativa Farsi Prossimo e la Diaconia Valdese, che mettono a disposizione gli educatori. Oltre ai due neolaureati, tre studenti arrivati nel 2021 frequentano la Statale e sono già prossimi alla laurea, grazie a un percorso di studi molto brillante, mentre altri tre sono iscritti alla Bocconi dallo scorso anno accademico.
 
L’esperienza dei primi tre anni ha insegnato che decisiva è la selezione dei giovani candidati, che oltre a un titolo di studio compatibile e a doti di apprendimento verificate devono manifestare requisiti emotivi e psicologici che li rendano in grado di affrontare un radicale cambiamento di contesto sociale e culturale. Non è facile giudicare tutte le attitudini di ragazzi che hanno praticamente trascorso l’intera loro vita in un campo profughi, in un ambiente privo di servizi, senza luce, senza acqua, in baracche con tetti di lamiera, con la necessità di fare ogni giorno diversi chilometri per poter frequentare una scuola. Difficile, ma non impossibile. 
 
«Questi giovani hanno un passato di privazioni estreme. E ciò rende difficile il processo di selezione – osserva Di Pascale – , che però negli anni viene affinato, per individuare persone capaci di sfruttare al meglio l’opportunità che si apre loro davanti. Lasciare nei campi profughi giovani con un forte potenziale, motivati allo studio e determinati nella vita, è un grandissimo spreco. Lo sarebbe per le loro esistenze individuali, lo è a ben vedere anche per noi. Molti giovani che partono da situazioni di svantaggio possono costituire una risorsa per rispondere alle esigenze, diffuse nel nostro sistema produttivo e dei servizi, di reperire importanti professionalità di cui siamo carenti». 
 
Poi, magari, competenze e conoscenze acquisite e messe a frutto alle nostre latitudini potranno tornare, un giorno, a essere utili e impiegate nei paesi d’origine: corridoi di andata e ritorno, sarebbe una storia ancora più completa e avvincente…
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